
11 Apr Hubble, il telescopio che ci ha svelato l’universo
“Spazio, ultima frontiera…”: con queste parole termina ogni puntata della serie fantascientifica Star Trek e ancora oggi, nel 2025, nonostante le tante scoperte avvenute, l’universo è così immenso da poter essere considerato davvero ancora l’ultima frontiera per l’esplorazione umana.
Una frontiera che si sposta un po’ più in là a ogni nuova scoperta, chiamandoci a viaggi che ci portano sempre più lontani.
Da sempre gli esseri umani hanno volto lo sguardo a quel che accade sopra le loro teste, al Sole stella diurna luminosa e calda, alla Luna pianeta notturno freddo e misterioso, e poi più su a quei puntini luminosi e pulsanti che paiono formare figure, che indicano la via ai naviganti e ai viaggiatori terrestri.
Quando nel 1608 Hans Lippershey scoprì che due lenti diverse poste a una certa distanza consentivano di vedere immagini ingrandite di oggetti lontani, non poteva immaginare di aver aperto la strada all’esplorazione della volta celeste; infatti i primi cannocchiali venivano usati in marina per avvistare gli approdi o altri vascelli in navigazione, ma solo un anno dopo Galileo Galilei si interessò a questo strumento, modificandolo così da poter ingrandire di trenta volte le immagini e decidendo di volgerlo verso il cielo, dando così inizio all’osservazione spaziale con il telescopio.
Lo strumento creato da Galileo era di certo rudimentale in confronto a quelli odierni, ma gli consentì comunque di modificare l’idea dell’universo e il posto dell’essere umano al suo interno.
Galileo scoprì che il pianeta Venere ha un ciclo di fasi così come la Luna, fenomeno possibile solo supponendo che Venere orbiti intorno al Sole, di conseguenza la convinzione che la Terra fosse al centro dell’universo non reggeva.
Lo scienziato scoprì quattro dei satelliti principali di Giove (non a caso chiamati “galileani”), le macchie solari, il fatto che la Via lattea, la nostra galassia, è composta da milioni di stelle e che la superficie lunare è ricoperta di crateri e “mari”.
Tra i difetti del cannocchiale di Galileo c’era quello di distorcere forme e colori degli oggetti osservati e di avere una visuale troppo ristretta. Per molti anni gli scienziati cercarono di ovviare a queste lacune finché, nel 1668, Isaac Newton risolse il problema sostituendo le lenti con degli specchi. Era nato il telescopio riflettore.
Molti altri ricercatori contribuirono al miglioramento del telescopio, tanto che nel 1781 fu scoperto il pianeta Urano e durante il 1800 gli asteroidi e il pianeta Nettuno.
Nel 1931 si scoprì che la nostra galassia emette delle onde radio aprendo la strada alla radioastronomia. Il primo radiotelescopio è infatti del 1937.
Negli anni ’60 giunsero i primi telescopi a infrarossi, a raggi x e gamma con i quali si scoprì che l’Universo è in espansione e si formulò la teoria del Big Bang.
Telescopi ottici furono installati in vari punti sulla superficie terrestre; uno di questi, molto potente, venne costruito in Cile nel deserto di Atacama nel 1996, ma già ci si era resi conto che per osservare lo spazio profondo era necessario avere un telescopio che fosse posizionato fuori dell’atmosfera terrestre, lontano dal suo inquinamento luminoso.
Gli studi per avere una macchina del genere iniziarono nel 1976, ma passarono tredici anni di sangue, sudore e lacrime di quasi diecimila persone che lavorarono al progetto, per superare un ostacolo dopo l’altro in termini di studi, adattamenti e soluzioni a problemi che mai si erano affrontati in precedenza e, finalmente, il 24 aprile del 1990 dal Kennedy Space Centre in Florida partì lo Space Shuttle Discovery per portare il telescopio spaziale Hubble a più di 600 km di distanza dalla Terra, lassù, oltre l’atmosfera terrestre, dove il buio profondo avrebbe consentito agli “occhi” del telescopio di poter guardare più lontano di quanto si fosse fatto fino ad allora.
Hubble deve il suo nome all’astronomo americano Edwin Hubble, che con le sue osservazioni aveva posto le basi per la dimostrazione della teoria del Big Bang.
È un telescopio riflettore, ossia si serve di una serie di specchi per riflettere e concentrare la luce in un unico punto e ottenere così le immagini che vengono raccolte e codificate da un sistema elettronico. Le sue dimensioni si possono paragonare a quella di un grosso autobus ed è dotato di due pannelli solari che soddisfano le sue esigenze d’energia.
Quel giorno d’aprile tutto andò per il meglio, lo Shuttle lasciò il telescopio in orbita e rientrò alla base. Nello Space Telescope Science Centre la soddisfazione era palpabile: avevamo la nostra finestra sull’Universo.
Iniziò l’attesa per l’arrivo delle immagini e, finalmente, il 20 maggio del 1990 arrivarono e… erano un disastro, solo delle chiazze informi, peggiori di quelle che si sarebbero potute ottenere dalla Terra.
Scienziati, ingegneri e tecnici erano allibiti. Cosa poteva essere accaduto?
Si iniziò l’analisi delle immagini e il problema individuato fu catastrofico: c’era un’aberrazione sferica che si verifica quando lo specchio primario viene costruito in modo sbagliato e non riesce a concentrare la luce in un unico punto. Al contrario, la curvatura sbagliata dello specchio distribuisce la luce e le immagini appaiono sfocate.
Ulteriori indagini individuarono una disattenzione nel montaggio del meccanismo di curvatura dello specchio primario, una disattenzione di un cinquantesimo del diametro di un capello ma sufficiente a provocare quella catastrofe.
Nello Space Telescope Centre regnava la disperazione, il difetto non si poteva modificare. Molti scienziati, ingegneri e tecnici lasciarono il Centro spaziale, il sogno del telescopio era fallito, l’opinione pubblica e la stampa si esprimevano con il massimo della durezza: la parte più importante del telescopio era stata sbagliata, in orbita intorno alla Terra c’era un costosissimo rottame.
Mentre ogni speranza sembrava perduta, Charlie Pellerin, responsabile del programma, non si diede per vinto: era necessario correggere il difetto, non c’era altra scelta. Ma come?
In gran segreto, Pellerin cercò altri fondi per trovare una soluzione ingegneristica, che si concretizzò nella progettazione di specchi della grandezza di una moneta che correggessero l’errore di curvatura dello specchio.
Partirono i lavori, centinaia di idee (molte delle quali impraticabili) vennero messe sul tavolo per giungere alla costruzione definitiva degli specchietti correttori. Poi l’unico modo per applicarli era che degli astronauti attuassero manualmente il lavoro sul telescopio a 600 km d’altezza, in mezzo al nulla. Si implementarono delle tute spaziali speciali, dei guanti particolari che consentissero agli astronauti di maneggiare oggetti delicatissimi. Gli uomini scelti per la missione parteciparono a centinaia di ore d’allenamento sott’acqua, in modo da simulare l’ambiente spaziale.
Occorsero tre anni e il 2 dicembre 1993 lo Space Shuttle Endeavor partì con a bordo il prezioso carico per il salvataggio di Hubble.
Quando lo Shuttle arrivò vicino al telescopio, venne esteso un braccio robotico per afferrarlo e gli astronauti erano lì pronti per iniziare le loro rischiose operazioni.
Mentre il mondo osservava con il fiato sospeso, i due astronauti procedevano con il loro lavoro, che si protrasse per ben quaranta ore, una delle missioni di riparazione più ambiziosa della storia spaziale.
Ma… l’operazione oculare di Hubble, aveva avuto successo?
Quattro giorni dopo arrivarono le prime immagini: erano perfette!
Decine di uomini e donne che avevano lavorato tutta la vita per questo momento potevano finalmente festeggiare.
Nei 25 anni successivi Hubble osservò più di trentamila oggetti, proiettò più di mezzo milione di immagini, assistendo alla nascita e morte di stelle, confermando l’esistenza dei buchi neri e di migliaia di galassie sconosciute.
Le immagini di Hubble affascinano ancora oggi il mondo.
La più famosa di queste è certamente quella chiamata “Deep Space”, che mostra centinaia di oggetti in una piccola porzione di cielo fino ad allora considerata vuota.
Ma quanto piccola?
Facciamo una prova, prendete uno spillo e reggetelo per il fusto tra il pollice e l’indice. Ora allungate il braccio verso l’alto in un punto in cui il cielo sembra vuoto: la parte di esso presente nella foto “Deep Space” è pari a quella nascosta dietro la testa dello spillo che state guardando.
La quantità di stelle e galassie in quello spazio minuscolo può darci un’idea di quanto immenso sia il cielo lassù e di quante galassie, stelle, pianeti e altri oggetti astronomici vi si possono osservare.
Tra il 1993 e il 2009 altre quattro missioni vennero lanciate per aggiornare Hubble, ma dopo più un quarto di secolo e nessun aggiornamento in programma il telescopio aveva i giorni contati: un altro grande occhio nello spazio era pronto a sostituirlo per farci guardare lo spazio infinito ancora un po’ più lontano. Un nuovo viaggio ci aspettava alla scoperta delle meraviglie dell’universo.