Per il protagonista del romanzo di Angelo Calvisi, Maledizione del sommo poeta, io-narrante della storia, tutto ebbe inizio intorno agli undici anni, in prima media, tra i banchi di scuola, allorquando, cioè, la docente di lettere, dapprima ammalatasi e poi suicidatasi, venne sostituita da una giovane (e bella) supplente, che sembrava uscita da un telefilm americano degli anni Cinquanta.
«C’è stato un giorno che il buon dio menagramo ha detto: lo vedi quello lì? I santi, seduti in cerchio, guardano un po’ verso il basso e poi rispondono in coro: non vediamo niente. Allora il buon dio intima: guardate bene, altrimenti m’incazzo. I santi aguzzano la vista. Di chi parli? Parli del bambino che soffre d’asma? Quel bambino con gli occhi grandi e le ginocchia sproporzionate? Il vegliardo dalla barba azzurra fa cenno di sì con la testa. Quello lì bisogna che faccia una vita di merda, dice il buon dio canaglia.»
C’è un uomo la cui esistenza è tormentata dall’ingombrante presenza del fantasma di Dante Alighieri, il Sommo Poeta. C’è una fidanzata invadente che prepara pranzetti non richiesti e adora l’EsidGezz. E poi c’è la professoressa di lettere delle scuole medie che marchia per sempre la psiche del protagonista con una domanda raccapricciante: perché vale la pena vivere?