01 Nov EDGAR ALLAN POE
Oggi mi occuperò di un personaggio complesso ma indimenticabile, Edgar Allan Poe, che cercherò di descrivere attraverso gli episodi della sua vita che mi hanno colpita di più, specie con riferimento all’influenza che possono avere avuto sulla sua opera.
La storia di Edgar Allan Poe è quella di un personaggio drammatico ed estremo proprio a causa della sua sensibilità profonda, che lo ha portato a vivere intensamente ogni sua esperienza ed ogni emozione. Aspetto che, con molta probabilità, aveva ereditato dai genitori (entrambi attori) e dalla precoce morte degli stessi, in seguito alla quale, rimasto solo, fu affidato alla famiglia Allan. Quest’ultima cercò di impartirgli una rigorosa educazione inglese, che Edgar non accettò mai, con tutti i conseguenti contrasti che ne derivarono per tutta la vita.
«Nella mia infanzia mostrai di avere ereditato questi caratteri di famiglia; discendo da una razza che si è sempre distinta per immaginazione e temperamento facilmente eccitabile…» (Tratto da “William Wilson”)
Edgar nacque il 19 gennaio 1809.
Il nome Edgar potrebbe essere stato ispirato dal nome di un personaggio del Re Lear di William Shakespeare, tragedia che i genitori stavano portando in scena proprio in quel momento.
Da bambino rivelò un’eccezionale memoria. La sua inclinazione, a volte forse eccessiva, per le rime e le anafore, cominciata da piccolo, gli valse presso i contemporanei l’appellativo di “jingle-man”, coniato dal grande filosofo e poeta Ralph Waldo Emerson.
La sua esagerata passione per musica e poesia forse fu causa di un violento squilibrio del sistema nervoso e della fragilità della sua esile fibra.
Nel 1816 si trasferì con la famiglia adottiva a Londra dove fece un percorso di studi in un collegio a Chelsea fino all’estate del 1817.
Ma attenzione! L’aula in cui studiava confinava con un cimitero e il preside del collegio insegnava matematica tra le tombe: ogni ragazzo doveva scegliere una lapide e calcolare l’età del defunto. Il primo giorno di scuola veniva poi data a ogni ragazzo una piccola pala di legno, con cui bisognava scavare le fosse di chi moriva nel periodo scolastico…
In ogni caso, l’educazione inglese ebbe una profonda influenza sulla sensibilità e sullo stile letterario dello scrittore, come si può comprendere dalla lettura del “William Wilson“, in cui emergono molti richiami di quel periodo.
Ancora, la sensibilità come pure lo spirito ribelle del giovane Edgar gli costarono non pochi problemi, tra cui l’espulsione dall’Accademia di Richmond per essersi innamorato di Jane Stith Stanard (che morirà in giovane età e sulla cui tomba fu trovato a piangere disperatamente per diverse notti), oltre ai numerosi contrasti con i genitori adottivi a causa dei debiti di gioco e del suo rifiuto delle regole, fino al punto che Allan lo rinnegherà. Non solo. Nel 1831 Poe finirà davanti alla corte marziale per essere processato per negligenza grave e disobbedienza ad un ordine per aver rifiutato di partecipare alla formazione, all’educazione e ai riti religiosi.
Nel 1827, infatti, non essendo in grado di mantenersi da solo (a causa dei contrasti col padre adottivo), si era arruolato nello United States Army come soldato semplice e successivamente si era iscritto all’Accademia militare di West Point dove fu poi processato.
Durante questa esperienza, però, compose e pubblicò con il nome “un bostoniano” “Tamerlano e altre poesie” e, una volta uscito dall’esercito, compose “Poems“, anche grazie all’aiuto dei cadetti che contribuirono alle spese per la pubblicazione e ai quali Poe dedicò l’opera.
Da quel momento, Poe cercò di vivere solo grazie alla scrittura. Ma non fu affatto un percorso facile. Fu infatti il primo statunitense noto che cercò di vivere dei soli proventi della scrittura e fu ostacolato dalla mancanza di una legge sul diritto d’autore, in quanto in quel periodo di frequente gli scrittori venivano pagati pochi spiccioli o, addirittura, non pagati affatto. Privo di risorse economiche personali, fu dunque costretto molto spesso ad avvalersi di forme di assistenza.
In ogni caso, quello tra il 1835 e il 1842 fu il periodo più produttivo della sua carriera, periodo in cui conquistò anche la fama di tagliente critico letterario.
Poe allora veniva ricevuto nella più scelta società letteraria di Nova York, fra gli artisti e gli uomini di lettere che settimanalmente Miss Anna C. Linch, celebre autrice, raccoglieva intorno a sé nel suo sontuoso appartamento di Waverley Place, e la parola calda e immaginosa, le eleganti maniere, l’aspetto distinto del nostro autore, affascinavano ognuno e gli accattivavano la simpatia e la benevolenza generale.
Forse è un caso, ma Poe nel 1835 aveva sposato segretamente la cugina Virginia Clemm, che aveva solo tredici anni e con la quale visse una profonda relazione d’amore soprattutto di tipo platonico. In questo periodo ricompose anche i rapporti con il padre adottivo e, per noi, scrisse “I delitti della Rue Morgue“, considerato il racconto capostipite del genere poliziesco. Qui compare per la prima volta il personaggio del detective criminologo Auguste Dupin, antesignano di quegli investigatori “deduttivi” che avranno in Sherlock Holmes il più celebre rappresentante.
Purtroppo, Virginia morirà nel gennaio del 1847, probabilmente di tubercolosi, in ogni caso con gli stessi sintomi della madre dello scrittore…
Durante la malattia della moglie Edgar cominciò a bere e di lì a poco perse il lavoro, sino a ridursi in condizioni di estrema povertà.
In quel periodo, però, compose forse i romanzi e i racconti più celebri, tra cui in particolare “Il corvo“, che lo rese celebre, anche se gli portò un guadagno di soli 9 dollari. Dalla morte di Virginia Poe precipitò nell’abisso della depressione, da cui realmente non si riprese più.
L’amore per le donne, vissuto fino alla disperazione e condizionato dalle morti premature per le sue amate, trapela in molti racconti e poesie di Allan Poe, in particolare ricordo “Il corvo“, in cui si rammenterà della sig.ra Stanard prematuramente morta, ma anche e soprattutto di Virginia, che sicuramente è al centro del tema “morte di una bella donna.”
«Dunque la morte di una bella donna è, fuor di discussione, il più poetico tema in tutto il mondo.»
(Edgar Allan Poe, “La filosofia della composizione”, 1846)
Poe è stato considerato il precursore dei poeti maledetti a causa dello stile di vita disordinato e della sua debolezza per l’alcol.
Tuttavia è doveroso ricordare che, secondo alcune biografie tratte dalle testimonianze dei suoi amici più cari e dalle ultime lettere dello scrittore, quella dell’alcolismo fu solo una fase finale della sua vita che intervenne dopo la morte di Virginia.
Sembra addirittura che le dicerie sui vizi del poeta siano frutto di una vendetta dello scrittore ed editore Rufus Wilmot Griswold, suo antagonista in vita, cui si è aggiunta la manovra editoriale protesa ad affascinare i lettori che amavano pensare di leggere i racconti di un poeta dannato, la cui vita coincideva con i personaggi dei suoi racconti.
In verità Poe era un uomo sopraffatto dal dolore e caduto in una cupa depressione, entrambe cose che lo portavano a subire attacchi di aritmia cardiaca. Solo allora il suo alcolismo divenne molto grave. Charles Chauncey Burr scrisse che Poe in seguito fu trovato molte volte quasi assiderato nella neve, di notte e d’inverno, seduto vicino alla tomba della moglie.
Gli ultimi suoi anni non furono allietati dalla prospettiva di una nuova vita con il ritrovato amore di gioventù, Sarah Royster, che stava per sposare, in quanto, pochi mesi dopo la promessa di matrimonio, morirà in circostanze misteriose, il 7 ottobre 1849, tre giorni dopo essere stato ritrovato delirante per le strade di Baltimora, “in grande difficoltà, e… bisognoso di immediata assistenza”.
Considerato uno dei più grandi e influenti scrittori statunitensi della storia, Poe è stato l’iniziatore del racconto poliziesco, della letteratura dell’orrore e del giallo psicologico, scrivendo anche storie di fantascienza e avventura. Fu anche un poeta romantico di valore, anticipando il simbolismo e il “maledettismo”.
Più che parlare della sua opera, però, voglio lasciare la parola a lui attraverso la lettura de “IL CORVO” dandovi appuntamento al nostro prossimo articolo.
Una volta, in una tetra mezzanotte, mentre meditavo, stanco e sconsolato, su molti strani e astrusi volumi d’obliata sapienza, mentre, sonnecchiando, già il capo mi si chinava, mi riscosse d’improvviso un battito leggero, come d’uno che bussasse sommesso alla porta della mia stanza. “E’ un visitatore,” borbottai, “che bussa alla porta della mia stanza – solo questo e nulla più.”
Ah, distintamente ricordo che si era in un desolato dicembre, e che ogni tizzo morente disegnava, dal camino, un suo spettro sul mio pavimento. Sospiravo ansioso il mattino; – giacché invano avevo chiesto ai miei libri di lenire il mio dolore – il dolore per la perduta Lenora – per la rara e radiosa fanciulla cui gli angeli danno nome Lenora – ma che qui non avrà un nome mai più. (…)
Aprii la finestra: ed allora con strepito d’ali entrò nella stanza un maestoso corvo dei sacrali giorni d’un tempo; non fece alcun cenno d’ossequio, non un attimo s’arrestò o indugiò; ma con portamento d’un gran signore o di dama si posò sulla mia porta – si posò sul busto d’una Minerva, sopra la porta della mia stanza – lassù si posò e nulla più.
Inducendo allora quest’uccello d’ebano un po’ al sorriso i miei tristi pensieri, con il grave e severo contegno che si dava, “Per quanto,” io dissi, “la tua cresta sia rasa e tagliata, tu non sei certo né vile né spregevole, orrido, cupo e antico corvo, qui giunto dalle rive della Notte; dimmi qual nobile nome è il tuo sulle plutonie rive della Notte!” Disse il corvo: “Mai più.” (…)
“Profeta,” io dissi, “mostro del male! – profeta pur sempre, uccello o demonio! Per quel cielo che su noi s’incurva – per quel Dio che entrambi adoriamo, di’ a quest’anima oppressa se mai nel remoto Eden abbraccerà più mai una fanciulla beata che gli angeli chiamano Lenora” – Disse il corvo: “Mai più.”
“E sia questa tua parola per noi ora segno d’addio, uccello o demonio!” gridai e balzai in piedi. “Ritorna alle tue tempeste e alle plutonie rive della Notte! Non lasciarmi nessuna tua nera piuma a significare la tua menzogna! La mia solitudine lascia a me intoccata, e tu lascia il busto sopra la mia porta! Porta via il tuo becco, dal mio cuore, porta via la tua figura da quella mia porta!” Disse il corvo: “Mai più.”
E mai più volando via di lì, il corvo ancora lì posa, ancora lì siede, sul pallido busto di Pallade, sopra la porta della mia stanza; e sembrano i suoi gli occhi d’un demonio che sogni; e la luce della lampada che l’investe ne getta l’ombra sul pavimento; e la mia anima da quell’ombra che fluttua e tremola sul pavimento non sarà sollevata – mai più!