A Casa di Lucia | -7 AL NATALE: UN VIAGGIO DI NATALE
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-7 AL NATALE: UN VIAGGIO DI NATALE

L’antivigilia, era un lunedì, segunda feira, era il giorno destinato alla visita di Cascais e della Boca do Inferno. Quella mattina, di portoghese Lucia sapeva dieci parole, tra cui le poche di una canzone di Battiato sul lunedì. Aveva le scarpe scomode. Per fretta o mancanza di buon senso, quelle con la suola di gomma non le aveva infilate in valigia. Si era trascinata tra le rocce e le spiaggette senza quasi vedere, si sentiva solo schiacciata da una luce atlantica a cui non era abituata e da vaghe nuvole bianche. Non riusciva a seguire la guida, parlava troppo veloce in un italiano storpiato.

Non ricordava altro di quella mattina. La sorella le rimproverava di avere una memoria capricciosa, di aver dimenticato molti episodi della loro infanzia, eppure lei era attentissima, da bambina, a tutto quello che facevano insieme, a tutto quello che la maggiore, Rosa, faceva e diceva, era il suo mito e il suo modello. Forse i particolari le sfuggivano perché erano assorbiti e uniformati dall’emozione che li accompagnava.

La sera pioviscolava, non era proprio pioggia ma l’umidità dell’Atlantico, gocce così fini da non bagnare. Come un vestito scivoloso che avvolgeva tutto. Il ristorante era piccolo e molto illuminato. Al tavolo i colleghi d’ufficio con cui faceva il viaggio organizzato decifravano i piatti del menu sospettosi, succede a molti italiani nei confronti delle cucine straniere. Lei invece mangiava a grossi bocconi, godendosi il piatto. La cuoca, che era arrivata in sala per dare un saluto agli ospiti Italianos, le aveva spiegato che era un sarabulho à la moda do Douro, uno spezzatino di bocconcini minuscoli, marinati con aglio, vino, sale, pepe e cumino. Il dessert era una ricetta invernale, che si fa nel periodo natalizio e per carnevale, elaborata dalle suore di un qualche remoto convento, i papos de anjos. Tante uova, amido di mais, burro, una specie di muffins, immersi dopo la cottura in forno in uno sciroppo di zucchero, vaniglia e scorza d’arancia. Mentre tornava in albergo per un vicolo in discesa, le sembrava di ricordare di esserci già passata, in quel vicolo, e sentiva nell’aria le note di una canzone.  Una della cassetta che Rosa le aveva regalato, chiara nell’aria ventosa.

Il giorno dopo, vigilia di Natale, era uscita da sola, girava incuriosita per le stradine strette sulla collina; le voci della gente, i suoni, i posti: le sembrava di ricordarli come se li avesse attraversati tanto tempo prima. Camminò zigzagando fino alla Cattedrale in alto, entrò a guardare il ricco presepe barocco, poi scese per un’altra strada. Si era fermata, su una terrazza da cui si vedeva il mare, la spiaggia larga e gli scogli da un lato, la piazza pavimentata di due colori. C’era nell’aria la stessa canzone di cui riconosceva le parole senza conoscere il portoghese.

Sentiva una nostalgia per così dire anticipata, quella che avrebbe provato dopo esserne partita, per quel posto in bilico tra antichi esili regali e attuali pullman gran turismo, in sosta per una mattina, tra Lisbona e Sintra. Un posto da saudade, il posto giusto per una saudade da viaggio organizzato.

Alla reception l’impiegato le disse che una donna, la signora Ayres Trindade, aveva chiesto di lei, le aveva lasciato un indirizzo. Lucia riconobbe quei cognomi, quelli di un musicista di cui aveva un’antica cassetta musicale. Disse che sì, sarebbe andata a incontrarla.

Nel pomeriggio partirono per Lisbona. Lucia saltò il primo tour e arrivò a quella casa. Era abbastanza vicino all’albergo, traversata la piazza del Rossio, dove le strade iniziano a salire verso il Barrio Alto. Stranamente non era stupita di quell’incongruo appuntamento. Alla donna che arrivò ad aprire disse subito che aveva una vecchia cassetta di canzoni e chiese se il signor Ayres Trindade suonava ancora.

– No, si occupa di import export, da molti anni, è quasi sempre in viaggio.

La donna, Ana Sophia Ferreira Ayres Trindade si presentò, la condusse in un angolo del salotto, piccolo, scuro e ingombro di mobili antichi: c’era uno scaffale alto, a vetri, pieno di dischi e cassette.

– Ecco, qui c’è molta della sua musica.

Tirò fuori un disco, un trentatré giri, come sembrava largo adesso, lo mise sulla piastra: la voce di Rui Ayres, brillante, un po’ aspra.

– Mio marito non le ascolta più, queste vecchie incisioni. Le ascolto io, qualche volta, quando lui non c’è.

Ana Sophia si alzò, prese dalla credenza di fronte due bicchieri a stelo, con cerchietti dorati dipinti sul vetro sottile.

– Le piace la jinjinha? È troppo dolce forse?

Riempì i bicchieri fino all’orlo. Insieme al liquore, in quello di Lucia colarono due o tre amarene.

Di fuori s’era fatto quasi buio. Ana Sophia non accese la luce. Stava seduta su un divanetto rigido davanti alla finestra, la visitatrice la vedeva di profilo, una donna sui cinquant’anni, i capelli raccolti con pochi fili grigi, il viso perfettamente ovale e gli occhi neri e lunghi. La penombra pareva che si condensasse sotto gli occhi, scurendo le palpebre.

Dopo un po’, la donna riprese a parlare.

– Rui è molto cambiato. Forse farebbe meglio a non rivederlo.

Lucia capì che l’aveva scambiata per sua sorella, ma era troppo complicato da spiegare. Ana continuò:

– A volte ho nostalgia di com’era allora, pieno di sogni, presuntuoso e senza un soldo. No, non credo di aver proprio nostalgia di lui, il fatto che fosse sognatore e povero non lo rendeva più sopportabile. Era ed è sempre un narcisista, anche se allora me ne accorgevo meno. Ho nostalgia di quel periodo. Per noi erano i primi anni della democrazia. Non so come dirle, la cosa che mi colpiva di più in quei primi anni della democrazia era una specie d’ingenuità, ecco. C’è un racconto di Saramago, ne ha sentito parlare, certo, il nostro premio Nobel. Il racconto si chiama Cadeira. Sedia. Una sedia si è rotta, facendo stramazzare il dittatore. Prima che accorrano servitù e guardie del corpo, il narratore e i lettori si avvicinano a una finestra e guardano fuori tranquillamente il grande panorama di città e paesi, fiumi e pianure, monti e campi coltivati e finalmente possono dire al diavolo tentatore che non vogliono aspettare il paradiso, vogliono proprio quel mondo lì, perché non c’è niente di male se qualcuno desidera quello che gli appartiene. Affacciandoci, in quei primi anni, continuavamo a dirci che non c’era niente di male a desiderare quello che ci apparteneva. Dopo che per tanto  ̶  tutto il tempo delle nostre vite fino ad allora  ̶   il nostro paese non era stato veramente nostro. La meraviglia e l’ingenuità continuarono per un po’. Finché sono finite e ci siamo accorti di essere invecchiati.

Rimasero zitte. Lucia finì la jinjinha. Quando ringraziò e si alzò per congedarsi, Ana Sophia aggiunse:

– Rui torna domenica, gli dirò che è stata qui, se mi lascia il suo recapito la farò chiamare.

– Era mia sorella – rispose precipitosamente. – Non ero io, ma la mia sorella maggiore, Rosa. E comunque si tratta di una cosa finita tanti anni fa.

– Mi scusi. Non si preoccupi, non sono più gelosa. E ho gradito la sua visita. Gliel’ho detto, quel periodo lo ricordo volentieri, forse anche il fatto che ero ancora abbastanza giovane e ingenua da soffrire per Rui. Sua sorella non l’ho mai vista, ma ho creduto di riconoscere la voce, l’avevo sentita al telefono qualche volta, tanti anni fa. Qualche volta che forse non aveva potuto evitare di chiamare, anche se non era il momento.

Lucia tornò in albergo agitata. Non avrebbe mai voluto incontrare la moglie di un remoto amante di sua sorella.

Sapeva che non avrebbe dormito. Aprì il rubinetto della vasca e versò il bagnoschiuma. L’acqua diventò verde pallido e velata. Poi all’improvviso realizzò che da giorni non stava pensando a Massimo e, qualunque ne fosse il motivo, era una buona cosa.

Fece un sonno filato, pieno e di buon sapore. Dopo mesi, anzi no, dopo anni, considerando, oltre le insonnie dell’abbandono, anche quelle febbrili del periodo passionale.

Rui le telefonò il giorno di Natale, era appena tornato, le diede appuntamento in un bar. Lo riconobbe subito, anche se era molto invecchiato rispetto alle foto che Rosa le aveva mostrato. Lui la fissava con seduttiva ammirazione. Disse con la sua cantante voce portoghese, che trovava strano che fosse andata a casa sua. Aveva forse dei messaggi da parte di Maddalena?

– Nessun messaggio, lei non lo sa nemmeno.

Lui disse come una constatazione:

– Maddalena le ha parlato di me.

– Ho ascoltato una sua registrazione, di molti anni fa. Ha una bella voce, non avrebbe dovuto smettere di cantare.

– È stato un peccato di gioventù, per un po’ ho creduto di poterci vivere, voglio dire di guadagnare a sufficienza per vivere. Non era così. Ma non mi lamento del mio lavoro attuale. Guadagno bene e viaggio molto. Sa, noi Portoghesi siamo tutti vagabondi. D’altronde, forse solo poco più degli altri. Conosce quei versi di Rilke, quelli in cui parla dei girovaghi e dice che sono solo un po’ più fuggevoli di tutti… Sa, ho provato un vero trasalimento, quando ho sentito la sua voce.

– Me lo immagino, a telefono ci confonde anche nostra madre. La voce è l’unica cosa in cui ci somigliamo.

– Lei deve essere molto più giovane.

Lucia non smentì, senza sapere perché si trovò a raccontargli che aveva ricordato Cascais come se ci fosse già stata.

– I posti sono precisamente di chi li ricorda, non è necessario esserci vissuti. Il suo arrivo l’ha fatta ricordare anche a me, la Cascais di quell’ultima estate con Rosa. Suonavo lì, per tutto luglio. E, alla fine del mese, l’ultima sera in quel locale, dopo l’esibizione, lei mi ha detto che ripartiva per l’Italia l’indomani e che non c’era altro da aggiungere. Né spiegazioni, né un seguito alla nostra relazione.

Rui girava il cucchiaino nella tazza del caffè con un gesto studiato, guardandosi le belle mani da chitarrista, le mani le aveva ancora belle, scure, magre. Se le osservava da inguaribile narciso, come lo aveva descritto la moglie. Aggiunse:

– È stata sua sorella a voler smettere. Ho creduto che fosse impossibile insistere.

Cominciavano ad accendersi le luci, i lampioni, le vetrine, anche se non faceva ancora buio.

Per un minuto Lucia ripensò a com’era il chitarrista quindici anni prima, a come l’aveva in mente prima d’incontrarlo. Alla gioventù, quando ancora il mondo sorprende e a come, poi, smettiamo di meravigliarci. A Rosa, che aveva poco più di trent’anni quando era tornata in Italia ad una vita regolata, da moglie soddisfatta.

Si alzò per andarsene. Non c’era niente da aggiungere. Si sentiva ancora una volta una copia sbiadita, un risvolto fortuito di una storia finita.

Ma si riscosse, tese l’orecchio alle campane che suonavano da molti campanili barocchi e manuelini. Era il giorno di Natale, il giorno in cui ricordiamo la nascita di un bambino. Un giorno in cui di nuovo riprendiamo a guardare la Terra con meraviglia e per un po’ ci sforziamo di sperare ancora.

Maria Letizia Grossi



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