A Casa di Lucia | “Dove non mi hai portata” di Maria Grazia Calandrone
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“Dove non mi hai portata” di Maria Grazia Calandrone

Non ci sono altre parole per descriverlo se non poetico. In questo romanzo la prosa è trattata alla stregua della poesia, come se effettivamente fosse l’unico veicolo adatto a trasmettere l’intimità di ciò che qui viene ripercorso. La vicenda è infatti quanto di più intimo possa esserci: è la storia che porta ad un abbandono, al proprio abbandono, ed è la ricostruzione attraverso racconti riportati e documenti ricercati di ciò che la madre ha vissuto e di come tutto questo l’abbia condotta alla difficile scelta di abbandonare la figlia e la vita. Allo stesso tempo, però, è una storia pubblica: è la storia del nostro Paese, del suo territorio così scompaginato, della guerra e dei sacrifici richiesti, dell’unità creata dalla tv, dell’emigrazione interna verso le città del Nord, del miracolo economico che nascondeva la distruzione futura a cui stiamo assistendo. È la storia delle nostre leggi e di quanto in esse la donna risultasse ancora in tempi recenti soggetto di serie B. Negli anni ’60, infatti, l’adulterio compiuto da una donna assumeva una gravità tale da non avere giustificazioni (a differenza di quello compiuto da un uomo) e da non consentire nessuna redenzione: era una condanna a morte pur rimanendo vive. Ed è quello che subisce Lucia, la madre della scrittrice: costretta ad un matrimonio senza amore, mai consumato, l’unico contatto costituito dai colpi violenti che il marito per nessun motivo le riserva giorno dopo giorno, Lucia infine si innamora, rimane incinta, abbandona la sua casa seguendo il nuovo compagno. E da questa scelta coraggiosa vede la sua vita imboccare una strada senza uscita: denunciata dal marito, per la legge italiana è una criminale, non trova lavoro, sua figlia non può essere riconosciuta dal vero padre e allo stesso tempo il marito si rifiuta di riconoscerla. Un’escalation di sofferenza, cronaca vera fatta di testimonianze strappate all’oblio, un atto d’amore di una madre che mette da parte tutta se stessa per dare alla figlia così amata un futuro pieno di possibilità, quelle possibilità che a lei erano state negate. Un libro che a sua volta è un atto d’amore da parte di questa figlia, ora donna, che partendo dal luogo dove non è stata portata, dalla volontaria morte di sua madre, ritrova il luogo dove tutto è nato: il cuore di una donna la cui vita diventa paradigma pubblico di un’ingiustizia sociale da cui siamo guariti solo nella forma, la cui parabola rimarca l’intensità di una vicenda privata guidata dall’unico denominatore dell’amore, dalla sua assenza così come dalla sua presenza.

Non pensavo che cronaca e poesia potessero coesistere in uno stesso testo, ma la Calandrone riesce a crearne una crasi in questo testo che raggiunge livelli sublimi: ci si indigna, si parteggia, si piange, ci si arrabbia, si spera fino all’ultimo pur sapendo fin dall’inizio la conclusione della vicenda. A pagine di un lirismo assoluto si alternano resoconti precisi di spostamenti e ricostruzioni quasi poliziesche degli eventi. E, sopra tutto questo, lei: Lucia rivive in ogni singola pagina, ogni parola trasuda l’amore di sua figlia, ogni battuta è la nota di un canto che entrambe hanno condiviso e che dall’intimità del loro rapporto hanno voluto pubblicamente svelare, lasciando ad ognuno il privilegio di poter intonare una strofa prima di richiudere la copertina. Senza poterlo più dimenticare.

Meritatamente finalista al Premio Strega 2023.



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